Attraversare la Namibia corrisponde alla sensazione di vivere un sogno; ma accorgendosi, subito dopo, che l’esperienza vissuta è totalmente reale.
Scoprite insieme a noi quale viaggio in Namibia intraprendere per non perdervi neanche un angolo (o quasi) di questo eccezionale Paese.
A una quarantina di chilometri dalla capitale Windhoek si trova un importante rifugio per la fauna selvatica che opera dal 2007 sulla base di opere di beneficienza, allo scopo di tutelare e conservare il patrimonio ambientale e culturale della Namibia.
Il Naankuse Foundation Wildlife Sanctuary offre assistenza medica e riparo ad animali feriti e cuccioli rimasti orfani, con il massimo sforzo possibile per restituire gli ospiti al loro ambiente naturale.
Gli scopi caritatevoli arrivano anche a perseguire la cura di uno dei gruppi tribali più antichi non solo dell’Africa, ma dell’intero pianeta: l’etnia San.
Chiamati un tempo Boscimani (dall’inglese Bushmen), costituiscono oggi la comunità più discriminata in Namibia a seguito di intricate vicende storiche.
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Naankuse Foundation
E così, la Naankuse Foundation offre istruzione scolastica ai bambini e assistenza medica a tutti i suoi componenti.
Visitare questo centro permette di scoprire i programmi e le tecniche di reinserimento dei grandi carnivori in ambiente naturale, mentre si esplora il territorio con l’assistenza degli antichi Boscimani nel corso di emozionanti safari.
Nel 2011 gli allora coniugi Brad Pitt e Angelina Jolie scelsero la Naankuse Foundation come partner per un progetto che vollero inaugurare in onore della loro figlia adottiva originaria della Namibia.
Fu così che qui nacque – in collaborazione con la Jolie-Pitt Foundation e il locale Ministero dell’Ambiente e del Turismo – l’iniziativa dedicata dello Shiloh Wildlife Sanctuary, volta a fornire cure e assistenza specialistiche ad elefanti e rinoceronti feriti o malati.
Cosa vedere durante un viaggio in Namibia
Waterberg Plateau
Allontanandosi dal rifugio in direzione nord, occorre una mezza giornata d’auto per raggiungere l’area del Waterberg Plateau, dichiarato riserva nazionale dal 1972 allo scopo di accogliere e riabilitare specie animali rare e a rischio di estinzione come i rinoceronti bianchi e neri, l’antilope nera, l’antilope alcina, il grifone del Capo e l’aquila nera.
Un safari in quest’area protetta porta anche alla scoperta di predatori come il leopardo e la iena bruna. L’anzianità geologica del territorio consente di osservare un centinaio di impronte di dinosauri risalenti a circa 200 milioni di anni fa.
Sembra incredibile che un’area così remota e selvaggia abbia rilevanza rispetto a fatti storici relativamente recenti.
Proprio qui si compì nel 1904 la battaglia di Waterberg fra l’esercito coloniale tedesco e il popolo Herero (una delle etnie del raggruppamento Bantu) che spinse questi ultimi a riparare oltre i confini dell’attuale Botswana per sottrarsi a un deliberato atto di genocidio da parte della Germania occupante.
Il capo tribù e comandante militare del popolo Herero, Samuel Maharero, riuscì così a sottrarre allo sterminio un migliaio di connazionali condotti in esilio, ed è oggi celebrato come eroe nazionale nella giornata a lui dedicata ogni anno il 26 agosto.
Etosha National Park
Posando gli occhi su di una cartina dell’Africa sud-occidentale alla ricerca di una nuova significativa tappa da raggiungere, può apparire ingannevole l’avvistamento – circa 300 km più a nord – di un’area con le sembianze cartografiche di un lago.
Si ritiene che Etosha Pan abbia effettivamente avuto un’identità lacustre circa dodici milioni di anni fa, ma questa depressione ampia 5.000 km² viene oggi inondata d’acqua solo durante la “grande stagione delle piogge” tra febbraio e aprile; e con minori probabilità durante la “piccola stagione delle piogge”, tra settembre e novembre.
Tolte queste eccezioni, Etosha Pan è un deserto di sale il cui nome può tradursi come “grande luogo bianco” per lo straordinario riflesso prodotto dalla massa salina che ne ricopre la superficie; ma non senza curiosi effetti verdastri dovuti alla presenza di un’alga blu-verde, e a un tipo di erba che spunta dal fango umido nei postumi delle piogge.
Questa desolata ma suggestiva distesa costituisce un quarto dell’Etosha National Park, che raggiunge nella sua interezza una superficie complessiva di 22.000 km².
Fondato come riserva faunistica con dimensioni ancora più vaste nel 1907 – ai tempi in cui il Paese era una colonia dell’Impero tedesco – il parco offre un imponente dispiegamento faunistico con le sue 114 specie di mammiferi, 340 di uccelli, 110 di rettili, 16 di anfibi e addirittura una specie di pesci (ma molte di più durante le piene).
Tra questi si osservano elefanti (fra i più alti d’Africa), rinoceronti bianchi e neri, giraffe, leoni, leopardi, ghepardi, alcune specie di gatto selvatico, volpi, sciacalli, iene e altro ancora fra cui l’impala dal muso nero: un’antilope in via di estinzione.
Anche gli uccelli sono numerosi, specialmente dopo le alluvioni abbondano fenicotteri, aironi e pellicani; ma anche struzzi, avvoltoi, grifoni e aquile.
Mentre nel deserto di sale dell’Etosha Pan riescono a resistere solo alcune specie erbacee adatte al suolo salino, nel resto del parco abbonda il mopane (chiamato per la sua forma anche albero farfalla) e numerose specie di acacia insieme a diverse altre specie arbustive ed arboree, come il curioso albero bottiglia.
Regione del Kunene
L’Etosha National Park costituisce anche il confine orientale della vasta Regione del Kunene che occupa, con i suoi 145.000 km2 di superficie, tutto l’angolo nord-occidentale del Paese.
Il fiume omonimo delimita l’area a nord, segnando anche il confine nazionale con la vicina Angola, mentre il limite occidentale è costituito dall’Oceano Atlantico.
Chiamata in passato anche Damaraland o Kaokoland, questa regione offre al visitatore numerosi e preziosi spunti di interesse. Il suo nome significa dal fiume Kunene “ciò che giace sulla destra”, nella lingua del popolo Herero che qui penetrò nel XV secolo trovandosi questo corso d’acqua su quel fianco durante la marcia.
Un sottogruppo degli Herero è costituito dalla tribù degli Himba, il cui nome significa “gente arrivata in cerca di aiuto”, in quanto costretti a riparare oltre il fiume per una carestia nel corso dell’800, restando in Angola per alcuni anni prima di riuscire a rientrare nella propria terra.
In un tipico villaggio Himba, le mani delle donne battono seguendo un sostenuto schema ritmico per invitare al canto e alla danza diverse famiglie in un festoso rituale di condivisione. I loro abiti tradizionali fatti di pelle animale sono succinti, e il seno resta tipicamente scoperto.
La pelle delle donne appare rossa in quanto ricoperta di otjize, un unguento ottenuto miscelando burro, grasso animale e ocra allo scopo di ripulirla da sudore e polvere, proteggendola anche dal sole e dall’aria secca. Tale mistura è resa piacevolmente profumata con l’aggiunta di resine odorose.
Anche le lunghe trecce dei capelli femminili sono trattate con lo stesso impasto per ottenere un effetto quasi scultoreo che, insieme a una sorta di corona ricavata da pelle di capra chiamata Erembe, ha reso queste capigliature fra le più iconiche d’Africa.
Living Museum of the Damara
Analoghe esperienze di contatto con la gente del posto possono farsi nella parte meridionale della Regione del Kunene, che aveva preso un tempo il nome proprio dall’etnia Damara.
Questo popolo aveva subito ai tempi del colonialismo una drastica regressione culturale, ritornando solo più recentemente a impossessarsi della propria identità grazie anche a iniziative come il Living Museum of the Damara, un sito da visitare alla scoperta della storia e delle caratteristiche di questo gruppo etnico.
L’iniziativa è maturata in seno a un’organizzazione non-profit tedesco-namibiana che ha istituito altre sei simili strutture in tutto il Paese con l’intento di fare del “Living Museum” una modalità di presentazione di specifiche declinazioni delle civiltà locali allo scopo di contrastarne la povertà, preservare le culture tradizionali e propiziare un interscambio con i visitatori, ai quali si dà l’opportunità di acquistare prodotti di artigianato realizzati sotto il loro occhi.
Valle di Huab
Sempre in quest’area, è possibile fare una nuova scoperta visitando la Valle di Huab.
Sulle sponde del Fiume Aba Huab si trova un sito archeologico registrato fin dal 2007 nella Lista UNESCO.
Twyfelfontein è un complesso di circa 2.500 iscrizioni rupestri, in gran parte zoomorfe, realizzate da una locale cultura dell’età della pietra, ma anche dalla già citata etnia San che frequentava il sito fin da tempi remoti svolgendo attività di pastorizia.
Questi petroglifi – di cui è stato accertato un utilizzo legato a pratiche sciamaniche – sono stati realizzati fra i 2.000 e i 2.500 anni fa, ma in una sede che risulta frequentata dall’uomo già in capo a 6.000 anni fa.
La Skeleton Coast
L’area costiera della Namibia settentrionale compresa tra le foci del Fiume Kunene e del Fiume Swakop è una delle più suggestive per la singolarità del suo assetto, con un nome che ne anticipa le caratteristiche: Skeleton Coast.
Tutta l’area desertica dell’entroterra scarica in queste acque la sabbia di enormi dune che si spostano sospinte dai venti; ed è possibile lambire queste masse sabbiose con escursioni in veicoli 4×4 a pochi metri dalla linea del bagnasciuga.
La costa ha un aspetto spettrale e inospitale ma, proprio per questo, carico di un fascino. I banchi sottomarini di sabbia, le forti correnti marittime della zona e le frequenti nebbie hanno provocato nel corso della storia numerosi naufragi in tutta questa zona.
Gli “scheletri” a cui allude il toponimo corrispondono ai relitti di navi spiaggiate avvistate a centinaia.
Visitare il Deserto del Namib
Skeleton Coast definisce anche il tratto settentrionale del Deserto del Namib, che continua a estendersi per 1.300 km verso il sud del Paese, con un’ampiezza massima verso l’entroterra di 200 km.
Nella parte meridionale si colloca l’area protetta del Namib-Naukluft National Park, rilevante per essere la più ampia riserva faunistica africana e il quarto più grande parco nazionale del mondo.
Il sito più celebre dell’area è costituito dalle dune di Sossusvlei, caratterizzate da una straordinaria escursione cromatica che va dal rosa e arancione delle dune più giovani, ai colori rosso e ruggine delle meno recenti e più massicce formazioni sabbiose che possono superare anche i 200 metri di altezza, e sui cui crinali si possono compiere indimenticabili passeggiate dal sapore fiabesco.
I visitatori di queste dune subiscono anche il richiamo del vicino Canyon di Sesriem, lungo circa un chilometro e profondo fino a 30 metri per essere stato così scavato da un fiume effimero attraverso 15 milioni di anni.
Una certa categoria di turisti risulta attualmente sempre più sensibile all’idea di viaggi che possano implicare una rottura esistenziale rispetto a consolidati stili di vita occidentale.
Tale inclinazione può rendere desiderabili mete collocate in località remote e spesso ardue da percorrere;ma ciò non impedisce a molti di temere l’eccessiva scomodità di simili opzioni.
Si è affermata fortunatamente da alcune stagioni una risposta organizzativa alla complessità di questa istanza, sintetizzata dall’assemblaggio lessicale del “glamping”. Inserita appena sei anni fa nell’Oxford English Dictionary, questa nuova parola risulta dalla composizione dei due termini inglesi glamorous e camping.
Emerge cioè l’idea di accostare all’esperienza del camping, tradizionalmente spartana, una cornice di eleganza e comodità in seno a strutture di lodge progettate allo scopo;riuscendo così a far vivere il seducente accesso a territori selvaggi e primordiali senza patire privazioni che vadano a minare consolidati standard di comfort del viaggio.
Nessun timore, dunque, del “pianeta Namibia” mentre ci si concede una estenuata dose di mal d’Africa sotto il segno del glamping.
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